sabato 22 febbraio 2014

IL VANGELO DELLA DOMENICA (DEL GIUDIZIO UNIVERSALE) (23.02.2014)

                                
                                             Il Vangelo secondo Matteo 25,31-46
                 
 
          [31]Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. [32]E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, [33]e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. [34]Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. [35]Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, [36]nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. [37]Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? [38]Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? [39]E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? [40]Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. [41]Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. [42]Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; [43]ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. [44]Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? [45]Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. [46]E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».
 
       Commento
 
     Il Vangelo dipinge una potente visione, drammatica, che noi chiamiamo il giudizio finale. Disegna una scena dove è rivelata, più che la sentenza ultima, la verità ultima sull’uomo, è mostrato che cosa resta della vita quando non resta più niente. Resta l’amore del prossimo. Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato. Sei passi di un percorso dove la sostanza della vita è sostanza di carità. Sei passi verso la terra come Dio la sogna. Tutto quello che avete fatto a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! Il povero è come Dio! Carne di Dio sono i poveri, i loro occhi sono gli occhi di Dio, la loro fame è la fame di Dio. Se un uomo sta male anche Lui sta male. Noi abbiamo ridotto i poveri ad una categoria sociale, all’anonimato. Invece per il Vangelo il povero non è l’anonimo, ha il nome di Dio. Un Dio che ha legato la salvezza non ad azioni eccezionali, ma ad opere quotidiane, semplici, possibili a tutti. Non ad opere di culto verso di lui, ma al culto degli ultimi della fila. Un Dio che dimentica i suoi diritti, preferendo i diritti dei suoi amati. E mi sorprende, m’incanta sempre un’immagine: gli archivi di Dio non sono pieni dei nostri peccati, raccolti e messi da parte per essere tirati fuori contro di noi, nell’ultimo giorno. Gli archivi dell’eternità sono pieni sì, ma non di peccati, bensì di gesti di bontà, di bicchieri d’acqua fresca donati, di lacrime accolte e asciugate. Una volta perdonati, i peccati sono annullati, azzerati, non esistono più, in nessun luogo, tanto meno in Dio. E allora argomento del giudizio non sarà il male, ma il bene; non l’elenco delle nostre debolezze, ma la parte migliore di noi; non guarderà la zizzania ma il buon grano del campo. Perché verità dell’uomo, della storia, di Dio è il bene. Grandezza della nostra fede. Poi però ci sono quelli condannati: via da me… perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare. Quale è la loro colpa? Non è detto che abbiano fatto del male ai poveri, non li hanno aggrediti, umiliati, cacciati, semplicemente non hanno fatto nulla per loro. Sono quelli che dicono: non tocca a me, non mi riguarda. Gli uomini dell’indifferenza. Quelli che non sanno che cosa rispondere alla grave domanda di Dio a Caino: che cosa hai fatto di tuo fratello? Il giudizio di Dio non farà che ratificare la nostra scelta di vita: via, lontano da me, perché avete scelto voi di stare lontano da me che sono nei poveri. Allora capisco che il cristianesimo non si riduce semplicemente a fare del bene, è accogliere Dio nella mia vita, entrare io nella vita di Dio : l’avete fatto a me!
 
 

lunedì 17 febbraio 2014

La fede cristiana nela Risurrezione

La fede nella risurrezione
“La fede nella risurrezione non è un complemento della fede in Dio, ma una radicalizzazione della fede in Dio: una fede in Dio che non si ferma a metà strada, ma va coerentemente fino in fondo. Una fede in virtù della quale l'uomo, senza prove rigorosamente razionali ma con una fiducia del tutto ragionevole, vive nella certezza che il Dio dell'inizio è anche il Dio della fine, che il Dio creatore del mondo e dell'uomo è anche il Dio che porta a compimento. Noi, morendo, non scompariamo nel nulla. Con la morte entreremo in Dio, che come origine e proto – sostegno, così è anche proto - fine della nostra esistenza.
La fede nella risurrezione, perciò, non va interpretata come mera interiorizzazione esistenziale o trasformazione sociale, ma come la radicalizzazione della fede nel Dio creatore: risuscitamento significa reale superamento della morte a opera del Dio creatore, che il credente ritiene capace anche di un'impresa suprema, anche di una vittoria sulla morte. La fine che è un nuovo inizio! Essendo l'alfa, Dio è anche l’omega...” (Hans Kung, Tornare a Gesù, pag. 278).

venerdì 14 febbraio 2014

IL VANGELO DELLA DOMENICA XXXIV dopo la Pentecoste (16.02.2014)

Il Vangelo secondo Luca 15,11-32

Il figlio perduto e il figlio fedele: "il figlio prodigo"

[11]Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. [12]Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13]Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. [14]Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15]Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16]Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. [17]Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18]Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19]non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20]Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. [21]Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. [22]Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. [23]Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, [24]perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
[25]Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; [26]chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. [27]Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. [28]Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. [29]Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. [30]Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. [31]Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; [32]ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
 
Commento
 
Bellissima questa parabola che tutti ricordiamo come quella “del figliol prodigo” – poi nessuno sa cosa vuol dire prodigo – comunque è un papà che ha due figli, due figli meravigliosi. Meravigliosi perché vogliono giocarsi nella loro vita la loro libertà, come fate tutti voi ragazzi quando siete in combutta coi vostri genitori – bravi genitori: la mamma è la fine del mondo, ha 4-5 “m” di più di quelle che dovrebbe avere; il papà è anche molto generoso, perché quando vede voi pensa sempre che siete molto fortunati – e quindi questi due figli decidono di giocare fino in fondo la loro libertà. Il primo dice “papà, mi stai troppo col fiato sul collo, io voglio provare cosa son capace di fare nella vita: dammi quello che mi spetta, io vado, vado a fare un po’ di giro nel mondo, vado a vedere cosa c’è di bello perché qui mi sento che mi manca l’aria”, e parte. L’altro, invece, non ha i grilli per la testa che ha questo suo fratello, però c’ha un tarlo che continuamente lo corrode, lo erode dentro di sé: questo vuole assolutamente stare col papà, “sta’ tranquillo, io sto qui in casa, però aspetto il momento giusto perché intanto accumulo premi, accumulo meriti, accumulo magari qualche deposito sul mio conto corrente, io sto bene qui, e soprattutto mi faccio il mio bel loculo, la mia bella stanza, il papà mi domanda di lavorare e quello che serve io lo faccio, però la mia vita non è con mio padre, io sto sognando qualcos’altro”. E quindi, quando l’altro fratello scoppia, perché sperpera tutti i suoi beni e non riesce più a capire niente, gli viene in mente che c’è suo papà: quando il mondo non mi vuol più – dice qualcuno – mi rivolgo al buon Gesù. Questo ritorna a casa, sperando però di potersela portare avanti in qualche maniera dentro al tran tran di prima, ma il padre lo sorprende, gli fa una festa infinita, lui non se l’aspetta nemmeno, che c’è un papà che è più grande dei suoi difetti e dei suoi sbagli; e l’altro, invece, ricordate, non ne vuol sapere di questa gioia che scoppia nella sua casa: “ma come, questo qui ha rovinato tutto, viene qui ancora a dividere di nuovo l’eredità, e io son sempre stato qui?” Non si accorge, questo fratello, che lui non vuole bene a suo papà, ma vuole più bene ai suoi vitelli, ai vitelli di suo padre, perché è lì soltanto per poter decidersi prima o poi di mettersi in proprio, e di fare la sua vita, perché suo padre quasi lo intralcia, e il papà, che va a mendicare anche il suo amore, perché lui è più grande dei sogni dei suoi figli: ha rischiato tutto sulla loro libertà, l’ha pagata, ma non cede nel lasciarli liberi: lo invita a fare festa.
Questa è la nostra situazione: noi siamo così, qualcuno parte, qualcuno resta, ma resta male, però c’è sempre un papà più grande di noi, Dio, che ci vuole un bene infinito, non ha paura di come usiamo la libertà, è sempre pronto a raccogliere anche i nostri cocci per ricostruire la nostra vita.
 

sabato 8 febbraio 2014

Il VANGELO DELLA DOMENICA XXXIII dopo la Pentecoste (09/02/2014)

 Dal Vangelo secondo Luca 18,10-14

Il fariseo e il pubblicano

[9]Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: [10]«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. [11]Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. [12]Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. [13]Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. [14]Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".
 
Commento
      Bisogna pregare sempre, ci dice  Gesù nel Vangelo. Nel brano di oggi mostra come farlo, presentandoci un fariseo e un pubblicano. Facile capire quale atteggiamento meglio ci si addice: possiamo solo mettere fuori, con tutta umiltà, la nostra povertà e debolezza. Per tornare a casa la via semplice è quella di chiedere perdono.

Lazzaro chiedeva il pane, i dieci lebbrosi la guarigione, la vedova reclamava giustizia, il pubblicano invece implora la cosa essenziale, il perdono dei suoi peccati e lo fa in silenzio perché sa che il Signore lo ascolta. Il meno di tutti riceve più di tutti, il perdono per tornare alla casa del Padre. Il fariseo è esaltato dal paragonarsi con l'altro e lo aggredisce nel suo avere ed essere di meno. Il pubblicano nemmeno chiede, non ha avversari o problemi esterni; il dramma è in se stesso e allora si mette davanti a Dio così com'è: "Abbi pietà di me peccatore".

Non sono diverse solo le preghiere del fariseo e del pubblicano, ma anche il loro modo di vivere, di concepire Dio, se stessi e il prossimo. Senza consapevolezza del proprio peccato si è presuntuosi nei confronti di Dio, ritenendosi giusti e superiori agli altri. Il secondo dipende dal primo.

Il fariseo dice la verità. Osserva la legge, ha spirito di sacrificio, fa più del necessario. Il debitore non è lui, ma Dio nei suoi confronti; non aspetta misericordia, ma il premio dovuto a un credente soddisfatto. Egli non rende grazie per il dono di Dio, come Maria nel Magnificat, ma per quello che lui ha fatto per Dio. Il soggetto della sua preghiera non è Dio, ma l'io. La sua è una preghiera atea. La cosa peggiore è che il fariseo ci assomiglia.

Il pubblicano è l'opposto del fariseo. È veramente peccatore, ma la sua posizione è quella di chi si abbassa, sente il bisogno di cambiare e sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da gloriare e nulla da reclamare, può solo mendicare. Conta su Dio, non su se stesso.

Gesù non decanta la vita del pubblicano, né disprezza le opere del fariseo. Il primo viene giustificato perché riconosce di essere peccatore. Dettagli decisivi sono le poche parole smozzicate, il gesto semplicissimo di battersi il petto, lo sguardo che non osava al cielo. I due della preghiera ricordano i due figli della parabola, il prodigo e il maggiore.

Nell'ordine della salvezza e del rapporto con Dio "tutto è grazia". Lo dice bene Soren Kierkegaard: il contrario del peccato non è la virtù. Ma la fede. Una fede che fa aprire gli occhi sul tuo nulla e sul tutto di Dio, sulla tua miseria e sulla sua misericordia. Penso alle coppie in crisi, dove ciascuno ritiene di trovarsi dalla parte della ragione. Se non si demolisce questa presunzione, non ci sarà dialogo e soprattutto non potrà emergere un sano rispetto della diversità altrui. Amarsi da "peccatori" consapevoli è forse il modo autentico di esprimere l'amore. Ma penso anche alle comunità, ai movimenti, alle diverse confessioni religiose.

Un bambino al catechismo: "Dopo questa preghiera il pubblicano cambiò vita o continuò a fare peccati?". Il Vangelo non lo dice, ma  un capo dei pubblicani, Zaccheo, dopo aver incontrato Gesù, darà la metà dei beni ai poveri e restituirà quattro volte il maltolto. Quindi l'incontro con Gesù cambia la vita nei suoi aspetti non consoni con la volontà di Dio.
    Cosa dobbiamo pensare del nostro cristianesimo occidentale visto la corruzione strutturale che si verifica  a tutti i livelli? Sarà forse un cristianesimo senza  Gesù? A ciascuno di noi  la risposta.

sabato 1 febbraio 2014

IL VANGELO DELLA DOMENICA 17-esima dopo la Pentecoste


 Dal Vangelo di Matteo 15,21-28

Guarigione della figlia di una Cananèa

[21]Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. [22]Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio». [23]Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come ci grida dietro». [24]Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele». [25]Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!». [26]Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini». [27]«E' vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». [28]Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita.


Commento

Per guarire il cuore malato dell'uomo ci vuole la parola di Dio che è zuppa di salvezza. L'incontro tra Gesù e la mamma siro-fenicia aggiunge che tutti possono scampare e guarire, senza distinzione, pagani compresi. I Cananei adoravano i Baal e le Asherah e proprio una cananea ad urlare il suo bisogno a Gesù, chiamandolo Signore, figlio di Davide. Gesù non risponde; la sua parola era per il popolo eletto. La donna non forza l'uguaglianza nella predilezione - ha solo forza di gridare la propria pena - eppure non recede nella richiesta, ammettendo che i cagnolini non siedono a tavola, ma sono felici per gli avanzi.

Una madre si identifica con la figlia al punto di supplicare il Signore: Abbi pietà di me, aiutami! Ogni vera preghiera è materna. Gesù è così colpito da questa fede uterina da attribuire alla forza della madre la grazia della guarigione. Lui che sembrava non voler intervenire, dice alla donna: Avvenga come tu vuoi. Infine, un'annotazione cronologica: fede e salvezza sono contemporanee, sincronizzate al minuto: da quell'istante la figlia fu guarita. Dopo quelle della madre a Cana, sono ancora le parole di una donna a convincere Gesù a modificare almeno in parte i suoi gesti.

Nel dramma di questa madre per il male radicale che ha colpito la figlia (È molto tormentata da un demonio) si vede la piaga del nostro cuore, come aveva appena detto Gesù: "Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie" (v. 19). È un male dal quale solo Dio può sanare. A condizione che trovi una misura di fede come questa della donna cananea, o quella di un altro pagano, il centurione (Mt 8, 10). Entrambi rivoltisi a Gesù e dunque, in qualche modo, essi stessi "giudei".

La salvezza è questione di fede. Quella della donna cananea contesta l'opposizione cocciuta di scribi e farisei, sbaraglia la deficienza dei nazaretani e stacca la poca fede dei discepoli. Il premio è a misura: una guarigione a distanza.

A chi tocca il pane dei figli? Ben presto la Chiesa si aprirà alla missione allargando i suoi orizzonti fino agli estremi. Già i dodici raggiungeranno finis terrae, sull'esempio del Figlio che ci aveva raggiunti fin nel fondo della piaga. Per noi, cristiani di vecchia data, serve a poco essere battezzati, cresimati e comunicati, se questi sacramenti sono ridotti ad abitudini e se non sappiamo più gridare la nostra fede nelle pieghe ordinarie della vita.

   Lasciamoci guidare dallo Spirito Santo, lo  Spirito di guarigione che soffia nella Parola di Dio e attraverso di essa ispira, lenisce e guarisce le ferite inferte dalla vita alla nostra anima. E' Lui il Consolatore, è Lui che ci conduce alla conoscenza della Verità tutta intera. Più ci svuotiamo del nostro nel suo senso deteriore, più ci riempiamo di Lui che ci dà pienezza di vita, di pace e di felicità. Non è forse questo ciò che noi cerchiamo, non è forse questa la chiamata a far parte del Regno di Dio? Assaggiando un po' di questo Regno di Dio saremo capaci di attirare anche altri uomini a farne l'esperienza così allargando il suo instaurarsi nella storia per poi raggiungere la pienezza nel vedere Dio "faccia a faccia" come ci dice San Paolo in una sua lettera. E così sia!
     P. Giuseppe